Il concetto della detenzione in segregazione cellulare
[Der Begriff EINZELHAFT]

 

Detenzione in segregazione cellulare [Einzelhaft] per quattro anni, quasi esatto al giorno. Senza tutti coloro che, con forze unite, pagano per bene e da bravi le loro tasse dirette e indirette, la detenzione in segregazione cellulare è una cosa impossibile [Ding der Unmoeglichkeit].

Appena c’è qualcuno che non partecipa, quindi.

Partendo da questo presupposto si può giudicare dei giudici. Costoro, basandosi su esperienze plurisecolari e sui principi fondamentali della loro cosiddetta filosofia del diritto, pensano che tre anni di detenzione rappresentano esattamente la giusta misura per “distruggere la personalità”. E, nota bene, in questo contesto non si parla nèanche di detenzione in segregazione cellulare.

Ma la coscienza pulita, flottando liberamente al di sopra di contribuenti e magistratura, è il corpo medico, incluse tutte le discipline ausiliarie, cioè dall’igiene di qualunque tipo fino alla para-psicologia (ce n’è anche un’altra? – è noto che ogni tipo di psicologia fallisce il bersaglio).

Ciò che per il “pubblico in generale”, cioè la minoranza dominante, è la coscienza pulita: “privare il prigioniero” soltanto “della libertà” (l’accento qui cade certamente sul “privare”?!), ma, per il resto “trattarlo come un essere umano con rispetto della sua dignità” (per questo artificio esorbitante si veda i commentari introduttivi al codice di procedura penale, ecc.), vuol dire la medicina che, giacché non fosse in grado di evitare tutti i danni provvederebbe almeno alla loro riparazione, questa è, in realtà e sospesa al di sopra di tutto, la copertura mimetica e il berretto da buffone più perfetta del potere di stato; e lo è particolarmente in tempi di crisi quando questi, oltrepassando la misura e i limiti delle sue stesse leggi illegali, si accinge a rompere quel distillato puro della malattia capitalistica: la personalità, un conglomerato di egoismi e nevroticismi, borsa e valore di mercato, e dentro tutto ciò – se si guarda bene – nient’altro che sintomi.

Presupponendo che i medici ponessero il loro veto – secondo la legge essi sono “al servizio della salute del popolo” – non ci sarebbero, oltre al cosiddetto carcere preventivo limitato a alcune settimane o, al massimo, alcuni mesi, nessun giorno di segregazione cellulare, nessuna delle cosiddette misure restrittive di detenzione, insomma: non ci sarebbe nessuna privazione di vita nell’ambito di ciò che l’ideologia del diritto borghese etichetta come privazione della libertà; infatti, come si sa, i medici proteggono la vita di ognuno senza riguardo alla personalità (inclusi la proprietà, l’età, lo status sociale, ecc. …); e per proteggere la propria vita, per esempio contro un singolo paziente detenuto, essi si fanno assecondare dal potere statale mediante anche una dozzina di guardiani nerboruti, quando si tratta di schermare “la salute del popolo”, qui in forma dell’orario di visita, contro le domande di un postulante molesto appena operato allo stomaco; o quando si tratta di estrarre del liquore cerebrospinale a un “oggetto” di perizia forense che non manifesta valorizzabili sintomi clinici (o, come si formula in parole altisonanti [vornehmer]: fare una puntura lombare per fini diagnostici).

Ed i medici preferiscono tappare la bocca ai prigionieri foraggiandoli fino all’intossicazione con neurolettici e psicofarmaci, invece di aprire la propria bocca anche solo un poco, quando essi, nell’esaminare la pressione sanguigna, osservano delle situazioni circolatorie in serie soggette al collasso cardiaco; e quando, avendo escluso con addestrata acribia un difetto dei loro apparecchi di misura, non possono più ignorare [vorbeischielen] – malgrado sforzandosi ostinatamente – il difetto dell’apparato di cui essi stessi fanno parte avendone la principale responsabilità.

La principale responsabilità della medicina come corporazione obbligatoria auto-organizzata del sistema nella determinazione alienante focheggiata che penetra senza resistenza denaturandole tutte le strutture e funzioni dell’organismo – come “potere dello stato” non frenato da nessuna barriera esecutiva, giuridica o legislativa – c’è nell’ambito di questa principale responsabilità della medicina del Capitale che si devono vedere questi quattro anni di segregazione cellulare, compresi tutti gli altri contenuti come la tortura di isolamento e le deportazioni, l’accecamento dosato e la gassazione dosata (vedi in seguito: cella di sicurezza, Sicherheitszelle), la privazione di tutto e di tutti per mesi e anni senza che nulla venisse restituito. Di questo è da riferire in seguito.

Questi quattro anni rappresentano soltanto la parte minuscola di una guerra civile mondiale, in cui il Capitale è medicina, vuol dire rimedio, e cioè tanto rimedio alienato per l’Apparato dominante quanto veleno mortale per gli altri. Molti si trovano imprigionati, qualunque sia il pretesto, perché si sono invischiati e continuano ad invischiarsi al vischio del Capitale, cioè al rimedio di una minoranza, che è la minoranza dominante.

L’iniziativa della medicina per invischiare a tutta forza – sì, a tutta forza, dalla cultura alla pallottola – i pazienti rivoluzionari liberatisi da questo vischio, sta per entrare nel settimo anno, continuamente abdicando senza però ritirarsi. E poi, ritirarsi dove? La sua ultima scoreggia si chiama “esplosione dei costi nel settore della sanità pubblica”. E anche questa debbano assumersi i lavoratori salariati sotto la determinazione della malattia – con il diritto d’autore e l’obbligo di pagamento. Forse in cambio di “qualità della vita” e “accrescente conoscenza della gestione della salute sotto la propria responsabilità” come cioccolatino consolante e una quota ufficiale dei “suicidi”, ciò omicidi, nel giro di quattro anni balzati da 16.000 a 20.000 l’anno, in cambio di tecniche manicomiali ridotte di numero ma con investimento più alto di Capitale, mentre che la “domanda” aumenta rapidamente?

Le contraddizioni nell’ambito della cultura vanno risolte da e nell’esperimento. Quasi a nessuno risulterà evidente di primo acchito che la detenzione in segregazione cellulare abbia a che fare sia pure minimamente con la cultura. E nessuno che ha imparato a contare, e sia soltanto fino a due, crederà che la detenzione in segregazione – se considerata come qualcosa totalmente isolata e a prescindere da tutto e da tutti – costituisca per sé una contraddizione. Si pensa alla cultura – anche a rischio di avere letto qualche libro di Freud – come a qualcosa di bello, confortevole, dispendiosa, ma in ogni caso si pensa a valori superiori, piuttosto che a una tale detenzione in segregazione, così stantia, per tutto il tempo. E chi non lo sa che occorrono almeno due (momenti, lati, parti, persone o che altro) per costituire una contraddizione? E tuttavia – il suaccennato esperimento insegna con evidenza e irrefutabilmente – che

1) detenzione in segregazione è cultura, e precisamente la pura cultura della cultura [Kultur in Reinkultur].
2) detenzione in segregazione è immediatamente e senza mezzi termini il modo più originale di comunità, è quindi il contrario, tutto sommato: contraddizione.
Il nucleo di ogni esperimento, in quanto scientificamente abbastanza fondato, consiste nelle sue condizioni [Bedingungen]. Realizzandole tutte, sempre tutto funziona [klappt]. Tuttavia, un risultato sempre corretto in tutto questo “funzionare” solo può aspettarsi chi ha eliminato accuratamente tutte le condizioni accidentali che altrimenti modificherebbero o persino falsificherebbero il risultato. Nel caso della detenzione in segregazione quello eliminare è più facile che si pensa.

Ma non solo perché la detenzione in segregazione è qui, tra l’altro, per convertire il pensare in gratitudine [Denken in Dankbarkeit], che è per di più fatto accessorio, cioè psicologia, se non è addirittura falso. La detenzione in segregazione, anzi, è una cosa [Ding] che si condiziona da sé [sich selbst bedingendes Ding], in altre parole – e, come suaccennato, a prescindere da tutte le circostanze, quindi anche quelle mediche e giuridiche, secondo quanto ci siamo prefissi - : la detenzione in segregazione va precisata come cosa impossibile [Ding der Unmoeglichkeit]; e questo in tutte le circostanze, e – dato che essa ha luogo ed è reviviscente senza dubbi [stattfindet und urstaendet] – ciò non può essere e significare nient’altro che realizzazione dell’impossibile. Dopo quattro anni di durata, si caga –con permesso – su tutte le facilitazioni e su tutti i privilegi [Privilegien, Verguenstigungen] riguardo al caso singolare cui ci si riferisce in quest’esposizione. Ciò che importa qui è il concetto, la responsabilità e l’eliminazione totale e senza sostituzione di quest’istituzione. Il resto è collaborazione.

Il teorema (cioè la conclusione non provata ma fondata su esperienze) secondo cui normalmente ciò che viene realizzato è in ogni caso solo l’impossibile, deriva dalla metafisica della malattia, dalla patosophia. Con ciò non è ancora dimostrato nulla, ma la tesi secondo cui la detenzione in segregazione sta in relazione alla cultura guadagna terreno e verosimiglianza proprio a causa di questa impossibilità.

Se si segue la raccomandazione di comprendere la cultura come riflesso della base, la detenzione in segregazione diventa il caso modello per eccellenza della cultura: le sue radici sono il contratto e il trattamento medico [Verarztung], detto in una parola: l’archiatria. E per continuare l’immagine, tutto l’insieme è una pianta di palude submarina, avvolta nella sua base, nel suo elemento nutritivo, mediandosi – nella cosificazione [Verdingung] del rapporto compenso-castigo – con se stessa attraverso la malattia come super-oggetto [Ueberding] che si condiziona da sé: questa è la detenzione in segregazione. Così la detenzione in segregazione è direttamente comunità, negando tutte le cattive metà metafisiche, tutti i trucchi e tutte le mediazioni; essa è cultura pura della cultura, la comunità più originale determinata dallo spirito comune di violenza e di archiatria, la riproduzione artificiale dell’esterno, compreso l’antecedente e il posteriore in abbreviatura.

Chi intuisce questi nessi, e sia soltanto parzialmente, ma continua ciononostante a dare la sua firma a quest’Apparato, compilando liste dei desiderati e fogliette di rapporto, presentando domande con ‘distinti ossequi’, accettando robacce di comunicazioni ufficiali e rispondendole persino, invece di stracciarle immediatamente senza neppure leggerle e buttarle fuori dalla porta, o almeno, presentatasi l’occasione, di rimandarle al mittente quando è possibile, ma soprattutto chi vuole – nella situazione della detenzione in segregazione – essere oggetto di un rapporto medico - paziente, costui può subito legare se stesso all’anatomia per fine di vivisezione. Tanto più che là, nell’anatomia, grazie all’anestesia, oggigiorno in ogni caso egli può contare di stare più al sicuro dai dolori, dubbi e dalle sospensioni di funzionamento e d’altro, che nei laboratori di infamia, vessazione e annientamento [Schind-, Schand- und Schundlaboratorien] della violenza istituzionalizzata dai medici, non importa dietro quale maschera essa si nasconde e di cui è la maschera.

Questa violenza però, quando viene incalzata per un tempo sufficiente e con ostinazione nella situazione sperimentale qui descritta, si definisce e si scopre come comunità e come quintessenza della cultura. Nei suoi scritti agli avvocati l’Apparato non si stanca di caratterizzare se stesso nei confronti dell’interessato come comunità dalla quale il prigioniero che l’Apparato detiene in segregazione cellulare si escluderebbe: infatti, la detenzione in segregazione è in modo difilato comunità in cultura pura! Nessuna “zona grigia nel nostro Stato di diritto”. Piuttosto, sulla scorta di Goethe, “cultura più alta entro la cultura”.

La sola etichetta detenzione in segregazione [Einzelhaft] si tradisce da sé. Detenzione (Haft, in tedesco, ha un duplice significato: arresto/detenzione e responsabilità/garanzia) è relazione, rapporto, contratto, perciò non è affatto affare di una persona singolare [Einzelner] in quanto questi rimane il soggetto della rottura, senza farsi rompere; contrariamente è l’affare di tutti coloro che contribuiscono e collaborano materialmente ed ideologicamente alla perpetuazione di quest’istituzione, e la persona singolare, prototipicamente quella detenuta in segregazione cellulare – oggettivamente come una cosa [Ding], come monade senza finestra, e essattamente per questa caratteristica della cosificazione (reificazione, Verdinglichung), e unicamente a causa di essa – non è separata da niente e da nessuno. Per conseguenza essa a lungo andare non può delimitarsi diversamente contro tutto ciò che la assedia come “comunità”, vuol dire che la sta penetrando da parte a parte, che attraverso un comportamento estremamente negativistico, ancora più negativistico che “schizofrenico” per cosí dire, perché selettivamente negativistico. Il contatto con gli altri prigionieri, se mai si può parlare di contatto (grazie alla “comunità”), viene denunziato ["peinliche Meldung machen", rapporto per castigo da parte del carceriere-poliziotto], valorizzato e sanzionato dall’Apparato come “esclusione dalla comunità”, e ciò riguarda persino i contatti con prigionieri politicamente insospettabili, altrimenti tali contatti vengono naturalmente definiti esplicitamente come “cospirazione”, e l’Apparato cerca di distruggere questa relazione con tutti i mezzi persecutori e di vessazione. Fare amicizia con ogni prigioniero quindi, nell’interesse di questo negativismo sperimentale e dal punto di vista della detenzione in segregazione, è almeno così importante come il boicottaggio attivo e sabotaggio di ogni forma di contrattazione e riconciliazione con l’Apparato e di ogni forma di trattamento medico.

La semplice firma sotto la “dichiarazione del mandato di arresto” già di per sé significa non soltanto averlo udito [gehoert], notato, aver capito; bensì è sinonimo di essere servo della gleba [Hoeriger sein], di appartenere a loro [denen gehoeren], di dare il suo consenso alla deportazione, il saccheggio, il foraggiamento, ... singolo, questo e tutto [Einzel- dies und alles], privazione di questo e di quello [Entzug dieses und jenes]; tutto ciò segue, lo possono fare totalmente senza nessuna firma, e di ciò persino danno prova con disinvoltura (“Sì, sì! È proprio così, questa società è repressiva!” Citazione letterale da un porco di poliziotto durante la deportazione forzata contro la resistenza passiva, trascinato per le gambe e le braccia lungo i corridori nel carcere di Rastatt – pretesto: escussione dei testi, estate ’72).

In maniera analoga il trattamento medico [Verarztung]. Anch’essa viene eseguita sulla base della violenza da una parte, e dell’essere trattato come cosa [Ding] dall’altra. Vuol dire, il ruolo del prigioniero in relazione alla legge, che durante la “custodia preventiva” concede per esempio il diritto alla libera scelta del medico e, quando il prigioniero è medico egli stesso, quindi all’auto-trattamento, e lo stesso si applica al rapporto medico-paziente – di tutto ciò colui che è stigmatizzato per mezzo della detenzione in segregazione non deve tener conto in modo assoluto. Ricette private redatte ad uso proprio vengono semplicemente distrutte senza commenti e senza restituzione (settembre ’72), ma invece di questo viene ordinato in base alla delazione il “bagno singolo forzato” – naturalmente senza nemmeno un’ispezione superficiale, per non parlare di esami. Davvero, la detenzione in segregazione è cultura pura della cultura e, insieme, la comunità più arcaica e più strana, perché si viene assediato permanentemente dall’archiatria (ufficialmente: “Sul settore medico noi facciamo tutto il possibile”, com’è vero, com’è modesto!). E può essere soltanto giusto far’ uscire questa “comunità” dalla sua latenza quando mai possibile: ma mai per mezzo di pulsanti di campanello, di contatti verbali o scartoffie a modo di valuta, di valuta di fogliette [Zettelchenwaehrung, "Wunschzettel"] (le contraddizioni nell’ambito della cultura vanno risolte da e nell’esperimento). Come si potrebbe altrimenti riuscire, date le condizioni di detenzione in segregazione, ad “rimanere a coscienza chiara, pienamente orientato verso spazio, tempo e persona” come postula ogni stato psichiatricamente negativo [unauffaellig = senza manifestazioni psichiatriche]?

La detenzione in segregazione è stata paragonata alla quarantena. Tuttavia, nella detenzione in segregazione la quarantena scoppia come un’epidemia endemica, e ciò si manifesta precisamente soltanto nel momento in cui la medicina si vede costretta ad entrare in uno stadio virulento, fra l’altro perché la segregazione in detenzione, che fino a quel momento era stata praticata solo per due anni e mezzo, non era ancora riuscita a fare del prigioniero un caso clinicamente afferrabile. Fu così che, in base al negativismo adoperato consapevolmente dal prigioniero, nel gennaio ’74 un medico carcerario di nome Pfahler, ignorando strategicamente il risultato negativo dal punto di vista epidemico - sanitario messo in evidenza dalla – diciamo: cripto-quarantena che già era in atto da due anni e mezzo, ne colse i frutti decretando, sotto forte protezione di polizia dal di fuori della porta della cella, che vi dovesse aver’ luogo immediatamente la quarantena. Le modalità di questa quarantena (decretata da Pfahler) furono: La porta costantemente sbarrata; il foraggiamento attraverso lo sportellino da foraggio incastrato nella porta della cella; stoviglie appositamente piccole per poter’ passare attraverso lo sportellino; nessun libro, periodico, ecc. proveniente dalla biblioteca circolante; e così via. Se ne sono fatti poi tre mesi di quarantena. – E quale quarantena: rifiuti, biancheria e vestiti furono rimossi sempre dalle stesse persone, toccati con le mani nude, controllati, riciclati o consegnati e trasmessi da quelle stesse persone che poi preparavano e distribuivano i pasti a tutti i detenuti del raggio del carcere.

Risultato sperimentale: La “comunità”, ovunque è all’opera, è un apparato completamente impazzito e la sua cultura è tanto pura quanto capitalisticamente corrotta, la contraddizione da risolvere, in quanto istituzionalizzata come detenzione in segregazione, è soltanto il proton pseudos, cioè un pezzo del nucleo solido dentro del letame putrescente.

C’è da aggiungere che la rottura con contratto e trattamento medico, con l’archiatria in forma della psichiatria, si è tradotta in risultati tangibili in forma di alcuni documenti che si possono rileggere per estratto nel Kursbuch 32, in cui si può constatare che è stata quella colonna portante della cultura capitalistica che ha avviato, nel caso singolare qui esposto, questa politica di tortura in collaborazione con i massimi criminalisti del Ministero di Giustizia. La gentile offerta di una cella imbottita nel manicomio di Emmendingen, fatta a proposito e senza perdere tempo, si è fracassata solamente a causa dell’interesse di carriera di un giudice speciale del Tribunale per la Sicurezza dello Stato.

Ciò che caratterizza questa detenzione in segregazione inequivocabilmente come giustizia criminosa è, da una parte, il fatto che questa, con la durata di quattro anni, ha violato il limite massimo di tre anni consentito dalla legge, violando cioè per conseguenza una legge. Com’è noto, la distinzione tra delitto e crimine coincide con la decisione se la “pena comminata” dalla legge per “il reato” fosse di durata inferiore o superiore ad un anno; quindi non si tratta né di inavvertenza né di un delitto [weder Versehen noch Vergehen], bensì di un crimine; dunque giustizia criminosa, l’essenza come apparenza.

Di un’“inavvertenza” non poteva mai trattarsi già per il solo fatto che, sin dal raggiungimento del limite massimo di tre anni, da parte di altri detenuti venivano presentate ripetutamente domande di venir’ rinchiusi almeno per alcune ore insieme con l’isolato in segregazione cellulare a fine di prendere lezioni o cose simili, domande che avevano avuto sempre lo stesso esito negativo sia a Ludwigsburg, sia a Bruchsal, e sempre vi ci si fece richiamo – e questo è importante – a un decreto del Ministero di Giustizia che nessuno ha mai visto (C’è da aggiungere che, sin dal dicembre ’74, la detenzione in segregazione viene perfino praticata in una “cella di sicurezza” speciale. Come già detto: più di uno è già troppo per la “comunità”). Questa circostanza contrassegna, d’altra parte, questa giustizia inoltre come giustizia politica. La sua criminalità è crimine politico; e dato che la caratteristica detenzione in segregazione rappresenta l’unica costante, cioè l’organicus punctus [Orgelpunkt] in una fuga polifonica dei movimenti di fuga nel concerto dei giusti di servizio, dal guardiano fino ai giudici (giustizieri) della Corte Costituzionale, tutta la facenda avrebbe potuto svolgersi ugualmente in un gabinetto un po’ più grande di una caserma, in quello di un manicomio o di un convento. Fin qui quanto all’atmosferico. Il resto, cioè la realtà – in altre parole: “tutta la cosa” ["das ganze Sach' "] – è una mescolanza composta di imbroglio di etichette, di perfidia e di mestiere storpio di tortura [verkrueppeltem Folterhandwerk] di cui le proporzioni variano di volta in volta. A tale riguardo ancora qualcosa di recente (fresco e rugiadoso, dal 3.12.’74):
 

La cella di sicurezza:

Circa 5x3x3 passi. La si raggiunge attraverso una angusta passerella “larga” circa 1 m; ringhiere di ferro, là dietro ci sono delle reti.

La porta: all’esterno legno, serratura, serratura di sicurezza, catenaccio, altro catenaccio (quando viene chiusa: knnnack, knack – knack – rratsch, ratsch). All’interno acciaio fissato con arabeschi di testi di chiodi grandi come noci o nocciole. E le cerniere: elefantastiche. Nella parte intermedia superiore della porta c’è un infossamento “largo” circa 10x10 cm, con al centro un buco di circa 1,5 cm: lo spioncino di vetro. La sua ribalta (coperchio ribaltabile) esterna però è saldata fissamente: eh, perché questo, forse si vergognano? Macché: lo spioncino potrebbe venir distrutto con la forza dall' interno, il vetro potrebbe venir spremuto verso l’esterno e uscire, e in questo modo si potrebbe formare nel sistema un buco, così potrebbero venir’ prese “contatti illeciti”. Quindi vi si trova ancora uno spioncino vero e proprio. Si trova diagonalmente sopra quello “falso”, è piccolissimo e non lo si vede facilmente, spioncino camuffato, truccato, evidentemente per terrorizzare e per inquietare permanentemente il prigioniero ideologicamente no tanto fermo in anticipo; e questo spioncino si può difficilmente scassinare senza strumenti speciali. Anche per “contatti proibiti” non si potrebbe facilmente scassinare.

La “finestra”:

Posta ad un’altezza di circa 1,80 m, di circa 1x1m; il battente si può spalancare. Ma non serve a nulla. Altrettanto poco serve sfasciarla. Tutta la cosa è un’imitazione [Atrappe], perché là dietro c’è:

1. una rete metallica a maglie (attraversabile per un dito medio abbastanza magro);
2. una grata d’acciaio;
3. un’altra grata d’acciaio un po’ spostato orizzontalmente rispetta a quella di cui in 2);
4. circa 30 cm di spazio morto;
5. una lastra di vetro smerigliato (plexiglas, che include una rete metallica) che sporge
    oltre il diametro interno dell‘ apertura totale per circa 20 cm in ogni lato.

La dietro infine devono cominciare da qualche parte l’aria fresca (arricchita con fumi di caffè d’orzo [Kathreinerkaffee, "Muckefuck"], ciminiera di una fabbrica alla distanza di circa 200 m in linea d’aria), luce, terra e simili.

Contro l’aria fresca la cella di sicurezza protegge insufficientemente soltanto durante dei giorni particolarmente tempestosi. Allora qualcosa si muove nelle immediate vicinanze del soffitto a volta della cella. Ma grazie alla maggior densità e peso dell’azoto e dei suoi ossidi, dell’ossidio di carbonio e dell’anidride carbonica, insieme con i vari “gas nobili” [Edelgase], rimane conservato l’effetto di camera a gas, un effetto non specifico e molto diffondente: questo verrebbe confermato sempre e continuamente [noch und noch] in vitro (p.e. con l’apparecchio di Warburg) dal micrometabolismo e dalle attività dei fermenti di tutte le cellule nella cella di sicurezza. Ci sarebbe proprio il caso per un Premio Dinamite Nobel, se non.

La luce c’è da un tubo di materia sintetica (“radon e cripton”). In questa tecnica soltanto il due per cento dell’energia totale sono luce visibile. Il resto, com’è noto, va di traverso, cioè negli occhi, li distrugge a lungo andare [der Rest geht bekanntlich ins Auge, zerstoert es auf Dauer]. E la maggior parte di ciò non rimane lì: celebrerebbe [feiere] la sua risurrezione dopo anni e giorni sotto forma di cancro della pelle più o meno grave e come atrofia ottica (rimpicciolimento del nervo ottico), per il particolare piacere di radiologi e oftalmologi: questo a parere di scienza (i primi disturbi della vista di questo genere si possono constatare nel giro di settimane, il loro massimo effetto, e lo stadio di accecamento avanzato dopo circa 4 anni. Questo è lo standard).

Un’altra stupidità [beknackt], simile a quello dello spioncino, riguarda l’interruttore della luce. Quello del tubo serve effettivamente soltanto per spegnere, quello di là della porta di sicurezza è l’interruttore per accendere l' interruttore nell’ interno della cella per accendere e spegnere la luce. Se si accende, la luce è spenta; ma se la luce è accesa, allora si converte in spenta. Tutto ciò che si legge o scrive diventa così un permanente indovinare di parole incrociate.

Tutto il resto nella cella di sicurezza, per esempio ciò di cui si ha bisogno, be’ diciamo, per dirigersi verso l’obiettivo – giacché non tutti considerano la deviazione e distrazione [Ablenkung] come collaborazione ammissibile – va soggetto all’universale libertà di sicurezza di venire privato ognora, perciò è inutile conseguirlo; per quanto riguarda il resto (WC, lavello, ecc.), vedi sotto “gas nobili” [Edelgase].

Sempre sicuro nella cella di sicurezza è solamente la base vitale di camera a gas e d’accecamento. Da qui chiunque voglia può intraprendere la carriera al Dio delle protesi. Occhiali, dentiera, toupet, catetere, bypass, … - ci si preoccupa in qualche modo di ogni cosa nello Stato sociale di benessere e politicamente di andatura a destra*. Il medico di servizio (“Lei deve sapere che io faccio tutto ciò solamente per idealismo”) si lascerebbe commuovere, soprattutto tra “colleghi” (cioè di fronte al collega dott. Huber) – se questo non venisse a tangere la "salute” del medico di servizio, si capisce – e chiuderebbe tutt’e due gli occhi, per cui, in definitiva, la “comunità” lo mantiene.

* un' alterazione della parola: “Sozialer Rechts- und Wohlfahrtsstaat” (come dicono i ufficiali)
   = Stato sociale di diritto e di benessere: in Sozialer Wohl- und Rechtsfahrtstaat 
   = Stato sociale di benessere e di preferenza politica sulla destra; la parola "rechts" 
      in tedesco significa "diritto" o/e "a destra".
La terra e l’aria del cortile quindi raffigurano già delle “facilitazioni” e dei privilegi [Privilegien und Verguenstigungen]. Il cortile, (‘l’ora d’aria’, in tedesco: Hofgang, è concepita come “Einzel-Hofgang” oppure “Gemeinschafts-Hofgang”, cioè come “andare da solo o insieme con altri detenuti nel cortile del carcere”), e questo si deve sapere, è il cortile della “comunità”, il cortile comune. Non che per questo già sia necessario un’autorizzazione ad una cosiddetta lista di desiderati o foglietto di rapporto. Piuttosto al contrario. Chi non si prepara dal principio ad urtare e a ‘tagliare’ così largamente come mai possibile la “comunità” (cioè la “comunità” dei signori guardiani e secondini) trattando la comunità come essa fosse "aria" ed ignorarla completamente anche in questo settore, cioè a preferire la sicurezza della camera a gas e d’accecamento 24 ore per 24 e per settimane nonstop a questa “comunità”, a costui i carcerieri tappezzano, in intervalli di scarsi tre mesi, dall’esterno la porta della cella con le loro provviste di manifesti a lettere gigantesche su fondo rosso. E su questi è scritto: “Ritiro di tutte le facilitazioni e privilegi”. Secondo l’esperienza ciò continua ogni volta per quattro settimane, quasi esatto al giorno. Non che dopo ci fossero all' improvviso delle facilitazioni. Macché: si ritirano soltanto quei bei manifesti.

Questa cosa di quei manifesti è naturalmente vietata quanto alla discriminazione ecc.. A proposito dell’”ora d’aria” [Hofgang] esiste persino un regolamento, che questa “è dovere di ogni detenuto nell’interesse della sua salute” o simile. E, come sono venuto a sapere, questo regolamento sarebbe perfino divenuto operante di quando in quando: precisamente nel caso in cui il caporione dei carcerieri (il direttore carcerario) ordinava a uno dei tanti che si mettono ancora a rapporto da lui: “Lei rimanga nella cella!”, e quello replicava: ”Allora mi metto in malattia”. Se in un tale caso il medico (archiatra) non era disposto ad attestare con una diagnosi a distanza e a semplice vista una “salute” sufficiente per il rimanere in cella – e si lasciò commuovere, per cui, in definitiva, ecc. (vedi sopra) – allora sì che anche il caporione dei carcerieri doveva limitarsi e accordandosi doveva concedere – cosa che dicono facesse molto più bene -: l’andare da solo per l’ora d’aria [Einzelhof], parimenti nel cortile che appartiene a questa “comunità” [Gemeinschafts-Hof], si capisce. Presupposto il veto del corpo medico, ecc., vedi sopra.

Già un po’ più complicato è questa cosa settimanale del guardare la TV. Anche questa viene concessa senza autorizzazione scritta (oltre all’ora d’aria la TV è l’ultima cosa che viene concessa “senza”, è insomma proprio l'ultima cosa), ma lì ci sono soltanto i detenuti. Quindi non è una facilitazione o un privilegio, è qualcosa di sicuro, dove si può andare, anche se quest’apparecchio [Glotzkasten] romba ininterrottamente per cinque ore e rimane l’unico, nella cerchia-dei-quindici-uomini-su-un-mucchio, che non esplode prima o poi? Ci si sbaglia: Basta che un prigioniero dice al capo dei carcerieri (capo reparto, Bauverwalter) che anch’io voglio venire a vedere la televisione: “Impossibile, la decisione del direttore già deve essere arrivata!” E’ successo così il 10.07.75. “Decisione del direttore?” Assente ingiustificato fino ad oggi. Ma è certo che il capo dei carcerieri, se fosse necessario, non si troverebbe lungamente in imbarazzo a procurare una tale “decisione”. Poiché si tratta dello stesso capo (di nome SCHWEIZERHOF?) che si prende cura dell’elevamento della “corrispondenza legale” con l’avvocato al rango di un privilegio [Privileg, Verguenstigung] che egli blocca attivamente e totalmente sin dal maggio ’75. Quanto alla relativa “decisione del direttore”, egli era sospettabilmente lento di averla sottomano. Se non sbaglio, (è comunque possibile accertarsene), è lo stesso capo-carceriere che, allora ancora vice-capo, mi prese in consegna a Bruchsal il 03.12.’74 per deportarmi [Verschleppung] via da lì, togliendomi il titolo di dottore in medicina

(disse ai carcerieri di Bruchsal guardando l’esterno della porta della cella: “Ecchè, devo leggere dottore? Questo è il colmo! Smettiamola!” – Secondo il codice civile il titolo, così come il nome, fa parte del cognome. Ciò vale a maggior ragione secondo il codice penale! (Reintegrazione!!) Siccome non riescono a distruggere l’identità rivoluzionaria, tentano di distruggere quella civile; con 15 anni di ritardo),
riuscendo in ciò là dove siano falliti definitivamente il tribunale speciale, l’università e l’ordine dei medici dato che l’illegalità del licenziamento dall’università e dal servizio di pubblico ufficiale era stata confermata nel frattempo con sentenza giuridica; e egli subito cassò anche il mio nome – su ogni altra porta di cella stanno almeno iscritti nome e cognome: è questa una differenza su cui del resto avevano richiamato la mia attenzione gli altri prigionieri, ma che non potei ignorare poiché arrivavano alle volte nella mia cella le lettere destinate a prigionieri con il mio stesso cognome; e oltre a ciò questo capo-carceriere ha sabotato fino ad oggi ogni telefonata col mio avvocato e ha trasformato le spedizioni postali contenenti libri in privilegi la cui concessione necessità un’autorizzazione speciale [bezugsscheinpflichtig]; egli ha preso cura del fatto che io venni rinchiuso in questa cella di sicurezza sprovvisto di tutto tranne che di quello che portava addosso. E queste condizioni sono e sarebbero rimaste le stesse anche se avessi riempito dei foglietti di rapporto – data la mentalità rapace di questi porci! Fu lui che, dopo l’ultima visita dell’avvocato, mi fermò davanti alla porta della cella: “Dobbiamo – ordine del direttore! – fare una perquisizione personale”. E quando non si realizzò per nulla la sua speranza che io lo aiutassi: “Ma sia anche lei dunque un uomo!”

Un po’ troppo di pienezza di potere per un singolo, misero servitore di polizia? Calma, calma! Sarà stato ben unto e coperto dal Ministero di Giustizia (ogni deportazione, del resto, era stata fiancheggiata dalla presenza personale dei porci di poliziotti dell’Ufficio Regionale della Polizia Giudiziaria [Landeskriminalamt, LKA]; soltanto quest’ultima deportazione sembrava che non, o piuttosto di sì, cioè da presenza meglio camuffata). Il suo direttore carcerario poi ha confermato per iscritto da tanto che egli da parte sua fa solamente le scartoffie, mentre tutto il resto nel caso mio prendeva le mosse dal Ministero di Giustizia, in pratica [im Klartext] dai porci di poliziotti dell’Ufficio Regionale della Polizia Giudiziaria, dai medesimi che, nei primi anni del settanta avevano negoziato ed escogitato con la Facoltà di Medicina Universitaria e dei medici specialisti tutto l’imbroglio che frattanto si è svolto e ancora si svolge. Una mania sistematizzata, da parte mia? Chi è di questa opinione si vada a leggere negli atti di quei tempi redatti dai porci di poliziotti, soprattutto anche da quelli in camici bianchi, per informarsi dei particolari. La pretesa che egli stesso dapprima impari per 6 anni a sapere menadito psichiatria e neurologia, questa pretesa poi non voglio neppure esigere da lui.

Dal punto di vista psicopatologico qui non hanno luogo né “alterazioni fisionomiche” ["Umphysiognomierung"] né “privazioni di pensiero” ["Gedankenentzug"], né “trema” ["Trema"] né “percezione maniaca” ["Wahnwahrnehmung"], né “irruzione di mania” ["Wahneinfall"] né “oneiroid” ["Oneiroid"], né “inibizione vitale” ["vitale Hemmung"] e nemmeno una disposizione particolare per “telecomando e determinazione dall’esterno” ["Fernsteuerung und Fremdbestimmung"]. Se si fosse verificato quest’ultimo caso, comunicherei con l’Apparato, ubbidendo da bravi alle “idee d’influsso”["Beeinflussungsideen"] e alle “voci imperative” ["imperativen Stimmen"], e collaborerei con l’Apparato lavorando in cella, lascerei censurare lettere e visite ecc., perché: “con la sua partecipazione al lavoro e col suo inserimento nella "comunità" (!) il detenuto conferma che ha accettato la sua condanna e ha preso la strada dell’espiazione, e che intende riparare il torto fatto alla società” (comunicazione del cosiddetto Ministro di Giustizia, trasmessa di persona alla radio dopo l’assunzione del governo da parte dei democristiani nel ’72).

Che cos’è preceduto?:
15 mesi di tortura d’isolamento a Rastatt (schermo per togliere la vista, mattonette di vetrocemento; porta d’acciaio con guarnizione di gomma; quindi deprivazione sensoriale, ottica e acustica, dal luglio ’71 fino al novembre ’72 – paragonato alla deprivazione sensoriale praticata p.es. nei carceri d’Irlanda settentrionale, dove la durata di una fase non supera mai i 90 giorni: per eccessivo). Veniva sospeso soltanto per motivi di cosmetica di processo dal Tribunale speciale per la Sicurezza dello Stato [Staatsschutzkammer, nonostante che tribunali speciali sono proibiti dalla Costituzione]. Rimaneva così fino al marzo ’73, mentre la detenzione in segregazione “naturalmente” continuava.

Poi tutto viene revocato dal giudice speciale: cortile speciale (Stammheim, fino a gennaio ’74: l’ora d’aria nella gabbia sul tetto di cemento del carcere, da solo o in comune con 2 o 3 detenuti “scelti”; ma nessuna deprivazione sensoriale programmata, nonostante la rete metallica alla finestra. Ma in cambio le prime vessazioni di controllo e di saccheggio, e i sabotaggi delle telefonate con gli avvocati – quindi Stammheim è chiaramente delimitabile a confronto di Rastatt, nonostante che dall’aspetto si trattava della stessa custodia preventiva).
 

Gli scioperi della fame:
A Rastatt dal giugno ’72 fino al novembre ’72: prima continuamente per 12 giorni, poi con interruzioni per 2-3 giorni di volta in volta.
A Stammheim: 49 giorni en bloc (ininterrottamente) (Nessun intervento medico sia a Rastatt sia a Stammheim).

Boicottaggio della censura:
Sin dal novembre ’73 (da allora né visite né lettere).

Cosiddetta reclusione punitiva sin dal dicembre ’73 (cioè sempre lo stesso, ma controlli ancora più stretti, una specie di custodia preventiva paradossale).

A Bruchsal (gennaio ’74): 3 mesi di tortura d’isolamento (cf. “quarantena”) durante la quale e in seguito, p.es. in occasione di visite dell’avvocato c’erano perquisizioni personali dopo ogni passo fuori dalla cella (tra l’altro fui sdraiato per terra per il controllo del contenuto delle scarpe).

Saccheggio senza restituzione tranne il necessario per la toeletta, i francobolli, una penna a sfera e 50 fogli di carta da scrivere. Vi fu ancora una differenza riguardo al saccheggio totale senza restituzione a Ludwigsburg (lì vennero rubati: la macchina da scrivere, i libri, il tabacco e tutti i possibili utensili; la radio a transistors non funzionava, ma continuarono a incassare i pagamenti dell’abbonamento alla radio). I libri mandatimi non mi venivano consegnati tranne quelli che venivano spediti come posta di lettera.

Sin dal gennaio ’74 blocco delle compre (pretesto: il mio rifiuto del lavoro forzato, ma data la disoccupazione – essendo generale nel carcere – nessuna modificazione, quindi si trattava di ricatto). Di nove pacchi arrivati per i giorni festivi – come ognuno li riceve – ne ricevetti uno solo, e per consegna dirette (madre). Tutti gli altri furono rispediti al mittente con la dicitura: “Accettazione rifiutata”! Invece di “firma rifiutata”! (perché altri oggetti spediti per vie postali vengono consegnati senza firma). Almeno due pacchi sono “andati perduti”. Su uno di questi c’era come mittente il mio nome: tanto più avrebbe dovuto venirmi consegnato senza firma.

Le deportazioni coatte:
Al carcere di Heidelberg, dal carcere di Karlsruhe al carcere di Rastatt. Rastatt – Karlsruhe, Karlsruhe – Rastatt, Rastatt – Karlsruhe – Rastatt – Stammheim – Bruchsal – Ludwigsburg. Deportazioni coatte all’interno del carcere: una volta a Stammheim, una volta a Rastatt.

Le cosiddette “punizioni interne”: A Ludwigsburg per 4 settimane “blocco delle visite per aver sputato” a un porco di poliziotto (boicottaggio della censura!). Per due volte 4 settimane di tortura d’isolamento – l’ultima volta attorno alle Pentecoste (occasione, pretesto: vedi nota precedente).

Rispetto al dominio coloniale, lo psichiatra FRANTZ FANON (“I dannati della terra”) ha analizzato “chi mantiene il contatto con il colonizzato senza nessuna mediazione e per intervento diretto e continuo”: “L’agente (riferito a gendarme e soldato) non attenua l’oppressione e non maschera il dominio. Li mette in mostra e li manifesta con la coscienza pulita delle forze dell’ordine pubblico. L’agente porta la violenza nelle case e nei cervelli dei colonizzati”.

Se FANON avesse analizzato le condizioni delle metropoli, egli difficilmente avrebbe potuto evitare di porre in evidenza accentuatamente e con inasprimento il medico – ancora prima e al di sopra di gendarme e soldati - come portatore della violenza che, penetrando continuamente e senza mediazione in tutte le case e in tutti i cervelli, si mette in mostra con disinvoltura come la coscienza pulita delle forze d’ordine.

Così però la sua osservazione secondo cui durante la prima fase della sua sollevazione il popolo non “ammazza” subito moltissimi medici solo perché questi, nel momento in cui si ha veramente bisogno di loro, sono sempre in giro per la campagna, rimane casuale, un aperçu.

Il medico delle metropoli, GAGLIO (“Medicina e profitto”), si è comunque accorto che la medicina rappresenta dal suo effetto una violenza che passa la pelle, scatenata e immediata, indipendentemente dal fatto che essa venga impiegata o no; rappresenta proprio per queste caratteristiche una violenza unica nel sistema della violenza strutturata in modo capitalistico, quindi una qualità che ugualmente pone la medicina nel centro strategico dei processi rivoluzionari.

A ciò sarebbe da aggiungere che si arriverà a questo soltanto a condizione che un’offensiva permanente costringa l’archiatria (il trattamento medico, Verarzterei) di ritirarsi in difensiva. 


Paziente del Fronte Wolfgang Huber, Dr.med., ass.prof., Ludwigsburg, 1975

 

Traduttore:

Kurd Ch. Schager, Dipl.-Angl., M.A.soc.ling. , PF/SPK MFE

Redazione finale:

Huber
KRANKHEIT IM RECHT